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sabato 3 dicembre 2011

La morte di Falcone decisa prima dell’Addaura e di Capaci

Nei confronti del giudice Giovanni Falcone, ancor prima del fallito attentato all’Addaura,Cosa nostra elaborò un primo progetto di ucciderlo, studiando e pedinando gli spostamenti di Falcone. Avevano persino individuato il sito, ove l’attentato doveva essere messo a segno, ma all’ultimo istante gli uomini d’onore ci rinunciarono. La circostanza mi fu raccontata da un pentito di mafia. Poi, seguì l’attentato dell’Addaura, per fortuna sventato e che ancora oggi non conosciamo bene le modalità e nemmeno i mandanti..
Ora se ci riesco, vorrei far rilevare alcune differenze sulle stragi di Capaci e via D’Amelio, e per meglio farlo, giova volgere lo sguardo al passato, ovvero all’altro attentato in cui perse la via Rocco Chinnici.
Il consigliere Chinnici fu assassinato perché aveva osato emettere i mandati di cattura a carico di mafiosi, scaturiti a seguito del famoso rapporto “161”. Rocco Chinnici fece tremare Cosa nostra, non solo per gli arresti ma per la nascita del pool antimafia, nel quale avevano confluito Falcone, Borsellino e Di Lello.
Ritengo, pertanto, che l’azione punitiva attuata da Cosa nostra diede la stura alle stragi mediante autobomba. In passato avevamo registrato l’uso dell’esplosivo in quella che fu definita la strage di Ciaculli del ’63. Ma, già allora apparve chiaro che la strage di Ciaculli era una ritorsione tutta interna a Cosa nostra, originata da frizioni sorti tra i La Barbera e i Greco di Ciaculli, da non confondere con la famiglia di Piddu u Tenente, padre di Michele Greco, di Croce Verde Giardina.
Tuttavia, Rocco Chinnici poteva essere salvato, talchè giunse alla Criminalpol di Palermo una telefonata che preannunciava un imminente attentato a mezzo di autobomba. Chi ricevette la “confidenza” non prese in esame che l’obiettivo poteva essere Chinnici. Io stesso, dopo l’attentato a Chinnici, ascoltai il nastro della segnalazione e rintracciai l’autore, un cittadino libanese, che aveva fatto la telefonata, accompagnandolo alla Mobile, da Ninni Cassarà.
Dopo la strage di Chinnici, il pool di Falcone, Borsellino e Di Lello, avvalendosi della Squadra Mobile e dall’Arma, riuscì ad infliggere pesanti colpi a Cosa nostra: centinaia di mafiosi furono condannati al max-processo, e nacque il tremendo odio di Totò Riina contro Falcone e Borsellino: i pentiti da me interrogati raccontarono lo sfogo di Riina che lamentandosi tuonava chiari intenti vendicativi contro due magistrati.
Quindi, è lecito supporre che Capaci e via D’Amelio siano legati da quel desiderio di vendetta nei confronti di Falcone e Borsellino, tante volte esternato da Totò Riina, agli uomini d’onore. Però, pur se legati da finalità convergenti, a parer mio, invece, nei due attentati colgo aspetti e moventi diversi.
In quello di Capaci rilevo il movente punitivo di far pagare con la vita, il “danno” che Falcone aveva procurato a Cosa nostra. I due tentativi di assassinarlo, quello dell’Addaura e il precedente, dimostrano che sentenza doveva essere portata a compimento. Giova anche evidenziare che nell’attentato di Capaci, Cosa nostra dispiegò un apparato “militare” di notevole proporzione. Ed è anche vero che nei confronti di Paolo Borsellino pendeva analoga condanna di morte. Tant’è che scampò ad un attentato, ordito dal padre di Matteo Messina Denaro, che a sua volta aveva incaricato dell’esecuzione l’uomo d’onore Vincenzo Calcara. Questi rinunciò all’incarico, divenendo poi collaboratore di giustizia.
In via D’Amelio noto una differenza sostanziale rispetto a Capaci. Infatti, in quest’ultima località, l’intero gotha di Cosa nostra è chiamato a concorrere. Invece in via D’Amelio al momento emerge soltanto la partecipazione di una sola parte di Cosa nostra, ovvero quella riconducibile alla famiglia dei Graviano, come dichiara appunto il pentito Gaspare Spatuzza.
E fermo restando che non possono avvenire delitti eccellenti, se non previa autorizzazione della Cupola, ne deduco che l’avvallo non prevedeva, proprio per “ l’anomalia” della strage, il coinvolgimento di uomini d’onore diversi dalla famiglia incaricata della strage. Già di per sé questo è il primo elemento diversificante da Capaci. Tuttavia, è necessario attendere l’esito delle indagini, ma se venisse confermata l’estraneità di altri uomini d’onore, saremmo per davvero innanzi alla prima “anomalia”.
L’altra “anomalia” è che la strage di Capaci, sin dalle prime investigazioni ci apparve come “ un libro aperto”, ovvero ci consentì di raccogliere elementi certi su cui lavorare.L’individuazione e la cattura poi di Gioè, La Barbera e Di Matteo rappresentò la prova regina delle nostre intuizioni e, sin dai primi passi, ne sono testimone, riuscimmo in poco tempo a comporre un puzzle con responsabilità corroborate da elementi certi.
In via D’Amelio questo non avvenne perché in primis s’innestò un elemento scatenante, ossia le dichiarazione di Scarantino. Occorrerebbe acclarare nei dettagli, in che modo avvenne il coinvolgimento dello Scarantino e per quali motivi fu tenacemente ritenuto attendibile. Io posso solo dire che della strage di via D’Amelio, non m’interessai, se non per essere coinvolto dal mio ufficio, la Dia, che mi assegnò il compito di pedinare due soggetti sino al loro arresto e che ora uno dei due fa parte degli ergastolani rimessi in libertà.
Ma, un’altra “anomalia” forse quella che potrebbe dare una chiave di lettura diversa dalle conoscenza attuali è il lasso temporale tra Capaci e via D’Amelio. Tante volte mi sono domandato perché due stragi così vicine l’una dall’altra? E cerco di darmi delle risposte.
La prima sembra essere stata concepita e attuata con notevole calma. Insomma l’espressione di un progetto, valutato, testato ed infine attuato nei minimi dettagli. In Via D’Amelio, il coinvolgimento di Scarantino, il furto dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino, il proseguire degli attentati di Milano, Roma e Firenze, che ho vissuto in prima persona, mi portano a concludere che le due stragi tendevano a raggiungere scopi diversi, pur avendo la medesima finalità, ossia assassinare i due magistrati.
Poi gli attentati di Roma, Milano e Firenze non fanno altro che rafforzare il convincimento di un progetto tendente ad ottenere vantaggi, verosimilmente oggetto di “trattative”.
Falcone, oramai per i mafiosi non rappresentava un pericolo e quindi c’era la necessità, semmai di togliersi” un sassolino dalle scarpe”. Mentre Paolo Borsellino, oltre a rappresentare un pericolo (ricordiamoci che insieme stavamo interrogando Gaspare Mutolo) s’era messo di traverso a quelle che oggi lo stesso Spatuzza e Ciancimino definiscono “trattative” tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Perché questa accelerazione nell’eliminare Borsellino? Non si capisce questa urgenza, visto che è notoria la proverbiale calma di Cosa nostra, abituata a servire la vendetta su un piatto freddo. E, nell’esaminare quelle che furono le mie sensazioni di allora, non escluderei il fatto che insieme alle presunte “trattative” vi fossero motivazioni riconducibili proprio alle dichiarazioni di Mutolo che quel venerdì 17 luglio ’92, non fece e che avrebbe dovuto fare in seguito, nei confronti di appartenenti alle Istituzioni.
Pippo Giordano

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