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mercoledì 20 luglio 2011

Mondi da vedere

foto di Fabrizio BlandiChe differenza c'è tra guardare e vedere? La differenza è sottile e leggera come se mettessimo la nostra mano tesa parallela al pelo dell'acqua calma e la tenessimo a due altezze diverse.
Ora si immagini che il primo punto sia a mezzo centimetro dall'acqua: sul palmo della mano si sentirà la temperatura fresca dolcemente umida del liquido, si potranno apprezzare i piccoli brividi quando un'ondina più riottosa delle altre ci sfiori appena. Questo è guardare. Ora invece provate a tenere la mano tesa sul pelo dell'acqua, in maniera tale che il palmo possa aderire naturalmente alla linea: ecco, sentirete tutta la forza diffusa che l'acqua oppone al vostro ingresso in profondità. Allo stesso tempo, se rilassate la mano, potrete seguire il movimento leggero delle onde, così che la vostra mano faccia parte dell'elemento, pur restandone estraneo abbastanza da poter sentire alcune piacevoli sensazioni: la mano e il braccio che molli si abbandonano allo scorrere delle cose, il dorso della mano non ancora bagnato, che ha un'altra temperatura rispetto al palmo, decisamente più fresco, e che fa sì che per tutto il braccio ci sia una particolare dicotomia caldo-freddo, che quasi ubriaca. Questo è vedere. Compenetrare la natura dell'oggetto, ma mantenersene abbastanza lontani da poterlo fare senza modificare troppo l'aspetto.
Vedere è un passo successivo che tiene insieme dettagli e complesso. Mentre nel guardare è possibile alternativamente occuparsi dei dettagli e del complesso, nel vedere ogni dettaglio sta nel complesso naturalmente. È l'occhio (ovvero il cervello) che si apre in maniera differente alle cose del mondo, proprio come se si respirasse a pieni polmoni. Non bisogna stare fermi nello stesso punto per ore per arrivare a vedere. È la predisposizione dell'animo che cambia tutto, sforzandosi di aprire la mente a tutte le sensazioni, scorporando i processi che automaticamente comporta il nostro pensare, quindi niente categorizzazione, perché sarà un passo successivo. Vedere è un'illuminazione, che alle volte si può anche aspettare per una vita intera. Da quel momento tutto cambia.
Ho avuto forse un privilegio a dispetto di quello che pensassi dieci anni fa (avevo quindici anni di questo periodo), che è stato non avere lo scooter per muovermi in paese e questo, in qualche maniera, ha fatto sì che cominciassi un lungo percorso di osservazione che, dopo tante, tantissime strade, adesso sembra avermi portato ad una più concreta percezione delle cose. Sant'Agata Militello da questo punto di vista ha qualcosa che molti altri posti non hanno. È come se ogni punto fosse un punto panoramico, da cui godere meglio dello spettacolo. Mare e colline, colline e mare si alternano con dolcezza, che quasi la salita e la discesa sembrano agevoli. Puoi scoprire, ad esempio, salendo a San Basilio, dello sfarfallio di numerosi colori, intensi il giorno, arrotondati la notte, come se fossero tempera ed acquarello rispettivamente. A San Basilio, con attenzione, si avverte anche l'odore del mare, nonostante sia alto, e l'occhio segue le contrade distendersi nel frattempo fino al paese, dal paese al porto, dal porto all'acqua. Puoi indovinare quasi ogni via, ricordando momenti più o meno importanti dell'esistenza trascorsi nel passaggio di questo o di quel vicolo, all'angolo, magari parlando con un amico o, più giovane, quando ancora una parte di una Sant'Agata certamente diversa non era asfaltata, giocando a pallone con compagni di cui a malapena adesso ho in mente le facce, e ogni posto era un'avventura. Davanti a casa mia c'era un giardino abbandonato, che piano piano i gruppi edili andavano rimpicciolendo sempre più. Si aggrovigliavano rampicanti, creando intrichi complessi che lasciavano solo alcune parti scoperte e creavano naturalmente una strada attraverso. Che si inseguissero gatti o si cercasse semplicemente l'ingresso in quel lembo di selvatichezza, per noi era azione e racconto immaginato dell'azione. Quel giardino da cui spiccavano i nostri colori sgargianti e le nostre piccole teste attentamente scrutate da mamme apprensive (e come dar loro torto?) era la foresta, che rievocava racconti dei nonni o mirabolanti peripezie televisive. Gli esploratori eravamo, sempre dello stesso fazzoletto di terra.
Così si scende. Si scende dalla campagna fino al mare e lo si può fare agevolmente in quindici minuti, sebbene si passino tre mondi, avvertendone la differenza. Là sopra, tra le contrade, le campagne, gli appezzamenti in parte coltivati e in parte abbandonati da quegli stessi contadini che altri raccontano con tanta drammatica enfasi, tra l'argento degli ulivi c'è la gente delle colline, i campagnoli, dalle facce che ancora sanno di terra e di fatica, rosse rubiconde di sole, di vino e di sudore, hanno degli occhi che vogliono rispetto, ma che sanno essere forieri di mille cure attente in rapporti di vicinato che hanno radici vecchie di anni, decenni, forse anche secoli. Il tempo scorre lento e silenzioso, intervallato dai versi degli animali e i motori delle motozappe o dei decespugliatori, un intermezzo che, a dispetto di quello che si pensi, non risulta neanche così sgradevole. Le contrade si snodano senza un apparente ordine lungo strade che salgono, poi caracollano in basso, infine si perdono in trazzere dal manto sdentato di pietre fuori posto e finiscono dove non te l'aspetti. Ancora adesso ammetto la mia ignoranza, ma la mia mappa è magra di riferimenti.
Si scende più in basso, passando per la strada provinciale che collega tutte le contrade, e si arriva quindi al paese, dove si incontra il secondo dei mondi di Sant'Agata, quello squisitamente urbano. A non più di una ventina di metri dal livello del mare, seguendo la linea del Castello Gallego, c'è la vera vita urbana santagatese, la vita di un paese che è impregnato da quella strana nozione del dinamismo che abbiamo noi siciliani dei paesi: una commisurata lentezza, meglio ancora una pacata velocità, il piacere di curare rapporti umani davanti ad un caffè, parlando degli argomenti più disparati, per quanto il santagatese a Sant'Agata parli dei soli fatti di Sant'Agata. Alla piazza o al centro commerciale (ma questa parola non deve farci pensare ad un enorme concentramento di negozi; è centro commerciale rispetto alla grandezza modesta del posto) si possono vedere passeggiare a tutte le ore, ad esclusione della fascia oraria dalle 14 alle 16 – troppo caldo e il pranzo pronto a tavola – persone di qualsiasi età, intente a misurare ogni passo con attenzione, mettendo insieme discorsi annosi. Come tale, Sant'Agata vive in un presente pregno di passato. I miei stessi occhi, guardando l'attuale organizzazione del paese, cercano di ricordare com'era prima. Altri tempi, altre velocità, altre persone. Il paese, il centro, non guarda il mare, se non dai terrazzi. Come una muraglia, infatti, si ergono i palazzi ad ostacolare la vista, se non per brevi scorci, in cui è possibile azzeccare anche dal livello della strada la linea dell'orizzonte.
Finalmente, imboccata una delle discese, si arriva alla marina, la praja, ancora adesso, se non per alcune eccezioni, dominio delle famiglie di pescatori. Qui, ai bar della marina, si riuniscono i lavoratori del mare in attesa, ridendo tra le carte (immancabili) e la birra, buttando battute e bestemmie con cadenza uguale e spensierata. Ci si dirige verso il porto, lasciandosi alle spalle il “passìo” della marina e le facce bruciate dei pescatori, per andare a vedere dell'altro: la storia di Sant'Agata è su questi pescherecci, che odorano ancora di verghiana memoria. A qualunque ora è possibile incontrare un pescatore intento a far qualcosa, perché il mare ce l'ha in testa, inscritto dentro come la carne e il sangue. È sempre un rapporto strano quello dei prajoti con il resto del paese, di cortesia indubbiamente, ma legato ad un adagio non detto: “tu non potrai mai davvero capire”. E forse è vero. Quando la barca naviga verso Nord e si estende lungo l'orizzonte e Sant'Agata è piccola e lontana, lì c'è qualcosa che altrimenti non si può capire. Le barche escono all'imbrunire dal porto dopo una lunga e lenta preparazione, poi vanno via con i loro motori dal rumore profondo come l'acqua. Vanno lontano quel che basta a buscare il pane e, mentre tutto questo succede, ecco una leggera brezza carezzarti la faccia. Il sole cala piano, una palla enorme ed infuocata proprio nel mezzo del mare. L'aria è tersa e per questo si possono godere i più bei tramonti da qui, così si cerca di dare un nome ad ogni gradazione di colore della nostra stella che piano affonda. Le luci dei paesi adesso si specchiano sull'acqua calma e si annullano i rumori di macchine e motori, per stare appresso ad un piccolo miracolo giornaliero.

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