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venerdì 27 maggio 2011

Pantelleria



Pantelleria (Pantiddarìa in siciliano) è un comune italiano di 7.844 abitanti della provincia di Trapani in Sicilia.

Posizione del comune di Pantelleria nella provincia di Trapani.
         
Il comune copre l'intera isola di Pantelleria. Si trova a 100 chilometri dalla Sicilia e a 70 dall'Africa. Il suo territorio è di origine vulcanica. Sono tuttora presenti molti fenomeni di vulcanesimo secondario, prevalentemente acque calde e fumi. L'ultima eruzione è avvenuta, nel 1891, sul pendio nord-occidentale, nella parte sommersa. Il territorio del comune va dal livello del mare ad una altezza di 836 metri sulla Montagna Grande.
Il porto dell'isola permette il collegamento regolare con i porti di Trapani e Mazara del Vallo. Pantelleria è dotata di un aeroporto ed è collegata all'Italia continentale con voli di linea.

[modifica]Aspetto e struttura dell'isola

Nota per la sua centralità nel Mar Mediterraneo, scalo intermedio tra Africa e Sicilia e caposaldo fondamentale per il commercio col Levante, Pantelleria, isola di origine vulcanica si caratterizza per la straordinaria singolarità del suo paesaggio in cui agli elementi naturali (colate laviche a blocchi, cale e faraglioni) si aggiungono i manufatti creati dall'uomo per vivere e raccogliere abbondanti ed unici raccolti agricoli; muri a secco (con la quadruplice funzione di spietrare il fondo, contenere il terreno, delimitare la proprietà fondiaria e proteggere dal vento); i Giardini panteschi (costruzioni cilindriche in muratura di pietra lavica a secco con la duplice funzione di proteggere gli agrumi dal vento e di controllare gli effetti micro-climatici per un giusto apporto di acqua alla pianta laddove l'isola ne è sprovvista), i dammusi (fabbricati rurali con spessi muri a secco, cubici, con tetti bianchi a cupola ed aperture ad arco a tutto sesto, atavici esempi di architettura bio-climatica).


Pantelleria è detta anche isola del vento, in quanto i venti si fanno sentire notevolmente durante tutto l'anno, rendendo però l'isola fresca anche durante la torrida stagione estiva.

[modifica]Storia

Le popolazioni originarie di Pantelleria non provenivano dalla Sicilia, ma erano di origine iberica o iberico-ligure. La prima presenza umana sembra attestata al 5000 a.C., ed è rimarcata dall'estrazione ed esportazione dell'ossidiana che si svolgeva nell'isola. Il primo insediamento degno di tale nome è il villaggio fortificato di Mursia, dell'Età del Bronzo (circa 2000 a.C.). Dopo un considerevole lasso di tempo, durante cui l'isola rimase probabilmente disabitata, nel territorio si fanno notare diverse costruzioni di epoca punica, fra cui alcune cisterne, nonché tombe ed altri manufatti di terracotta. Il nome di Pantelleria, deriva dall'arabo " bintu al riah", ossia figlia del vento. I Romani occuparono l'isola nel 255 a.C., la persero l'anno successivo, per poi rioccuparla nel 217 a.C. Durante il periodo imperiale vi vennero esiliati importanti personaggi politici.
Nel 700 la popolazione cristiana venne sterminata dagli Arabi, e nel 1123 fu conquistata dai Normanni di Ruggero I di Sicilia. Nel 1311 una flotta aragonese, al comando di Luigi di Requesens vi conseguì una notevole vittoria, e la sua famiglia ottenne il principato dell'isola fino al1511, quando fu messa a ferro e fuoco dai turchi.
Nel 1943, durante la II Guerra Mondiale, la conquista di Pantelleria fu ritenuta di importanza strategica dalla truppe alleate che si preparavano ad invadere la Sicilia, tanto che l'isola fu pesantemente bombardata dal mare e dal cielo, per preparare lo sbarco delle truppe, nell'ambito di un'operazione anfibia chiamata Operazione Corkscrew.
L'economia dell'isola è basata sull'agricoltura specializzata della coltivazione della vite: famoso lo zibibbo, vanto dell'isola, e i vini dolci come ilMoscato e il Passito. Pregiata la produzione e la conservazione del cappero, oggi a Indicazione Geografica Protetta e dell'uva essiccata. Fino a non molto tempo fa era noto l'allevamento di asini e di muli apprezzati in tutta Europa. Scarsamente praticata la pesca sono invece in crescente sviluppo le attività legate al turismo, specialmente estivo. L'isola è dotata di una buona ricettività alberghiera. La sua gastronomia rappresenta un'occasione unica per i numerosi piatti a base di pesce di cui l'isola è ricca. Particolarmente apprezzata la ricotta locale, e il formaggio fresco, tuma, sia dolce che salato.L’ampio dibattito sul ruolo svolto dal Mediterraneo, visto ora come area generatrice di forti coesioni, ora come elemento di divisione tra realtà geopolitiche caratterizzate da notevoli divari in termini di sviluppo, induce a qualche riflessione.
Le considerazioni avanzate a sostegno delle varie tesi degli storici, così come dai geografi, non possono non individuare in questo mare un luogo privilegiato, un’area di contatti tra civiltà diverse, un’interfaccia culturale, capace di promuovere scambi, di generare una fitta rete di comunicazioni, ma al contempo di priva di carattere unitario (Braudel 1987, Campione 1998, Lévy 1999).
Tutti gli elementi costitutivi di quest’area così peculiare sono coinvolti nel complesso quadro dei contatti culturali che oggi, come nel passato, animano le relazioni all’interno del Mediterraneo; in particolare le isole hanno risposto alle sollecitazioni culturali esterne elaborando soluzioni diversificate imperniate principalmente su processi d’interazione, ma anche di giustapposizione o di rifiuto, che non prescindono dalle condizioni di marginalità connesse all’insularità. Quest’ultimo concetto sottintende quello d’isolamento, carattere essenzialmente fisico, che assume valenza antropiche se correlato al sistema di relazioni con la terraferma (Turco 1980, Ciaccio 1984).
Da questo punto di vista, le isole minori, apprendici di isole più grandi, rappresentano gli anelli più deboli di tutto il sistema insulare mediterraneo; ciò non toglie che esse abbiano saputo sviluppare una propria identità geografica che affonda le radici nell’interazione tra cultura e territorio. È questo il caso di Pantelleria (Colutta 1957, Bonasera 1965, Tomasini 1965, D’Aietti, 1978, Ciaccio 1984, Rachelli 1989) che dimostra di possedere caratteri di unicità culturale.
Ubicata quasi al centro del canale che separa la Sicilia dalla Tunisia (dista infatti 102 km da Capo Granitola e appena 83 km da Capo Bon), rappresenta uno dei punti estremi non solo del sistema territoriale nazionale e regionale ma anche del continente europeo; una periferia la cui marginalità, fisica ma anche socioeconomica, risulta essere un tratto distintivo, un attributo quasi dovuto. In un’ottica continentale quest’isola è dunque un luogo-limite (Lévy, 1999), estremo avamposto di una frontiera virtuale che separa le due sponde del Mediterraneo; ma, ribaltando il punto di vista e analizzando diacronicamente la sua posizione nel contesto mediterraneo, emerge la sua natura di contatto fra civiltà e culture diverse, nonché il ruolo giocato dall’insularità.
Generalmente a questo fattore si associano valenze negative: marginalità e isolamento fanno di Pantelleria un luogo d’esilio sin da tempi lontani, in ottemperanza a quella regola non scritta che individuava nelle isole minori dei territori subalterni, dominati dal potere centrale, adibiti a funzioni di basso rango (Cicirelli, 1994). Infatti la tradizione vuole che a Pantelleria vi fosse relegata Giulia, figlia di Augusto; sotto la dominazione borbonica e fino all’Unità d'Italia fu sede di colonia penale; a partire dal 1864 accolse i domiciliati coatti e infine durante il regime fascista fu luogo di confino per i dissidenti politici; ma, contrariamente a quanto avvenne nelle Eolie, i panteschi accolsero senz’ostilità i relegati che, peraltro, lavorarono ad istruire gli isolani. Tuttavia, dove l’insularità diventa fattore agevolante è nel processo di formazione della cultura locale a cui concorrono elementi estranei, assorbiti e rielaborati nel tempo dall’uomo e quindi trasferiti nello spazio. Il territorio mostra, infatti, i segni evidenti del continuo sovrapporsi e rimescolarsi di genti e culture diverse che, rispondendo ai condizionamenti e alle sfide ambientali poste dalla struttura geologica (l’isola è, infatti, di natura vulcanica come testimoniano i piccoli crateri spenti, le coste scoscese inframmezzate da articolate insenature, le imponenti colate laviche, le emissioni di vapore fuoriuscenti dalle fessure del terreno o dalle pareti delle grotte costiere, il lago che ha sede in un antico cratere e le cui acque sono alimentate da numerose caldarelle, le rocce e i minerali, quali la cossyrite e la pantellerite e soprattutto l’ossidiana alla cui presenza si lega il popolamento dell’isola; da ciò deriva la fertilità del suolo, sia la quasi totale assenza di corsi d’acqua e di falde freatiche, fatto che rappresenta il condizionamento maggiore alla vita sull’isola) e dal clima (sostanzialmente mediterraneo, caratterizzato da forti venti che tengono sgombro il cielo dalle nuvole, contribuendo a mantenere scarse le precipitazioni), ne hanno modellato il paesaggio imprimendogli un carattere di unicità. Forme abitative, struttura rurale, gestione dell’acqua sono, infatti, il prodotto di un processo dinamico che trae forza dalla esperienze dei popoli che sono stati protagonisti dell’organizzazione territoriale dell’isola.
Nel 533 erano giunti i Bizantini che avevano imposto un duro regime, spingendo l’isola in uno stato d’estrema miseria. In seguito erano arrivati numerosi cristiani fuggiti dalle coste africane a causa delle persecuzioni musulmane.
In seno al complesso processo di stratificazione culturale, tuttavia, il momento più significativo è rappresentato dall’influsso esercitato dall’Islam che ha lasciato tracce vistose sia negli aspetti materiali, che immateriali della cultura locale.
La storia della presenza musulmana a Pantelleria si discosta lievemente da quella siciliana; l’isola subisce una prima scorreria saracena probabilmente intorno al 707 (sarebbe stato il generale ‘Abd al-Malik a conquistare l’isola nel 707, mentre lo storico tunisino Abd al-Wahhab fissa questa data al 736), circa un secolo prima dello sbarco a Mazara (18 giugno 827); nell’835, a seguito di un secondo e più incisivo assalto, le popolazioni cristiane insediate a Pantelleria furono pesantemente sconfitte e definitivamente annientate. L’isola, che rivestiva un indubbio valore strategico per il controllo del Canale di Sicilia, venne ripopolata da contadini berberi, dando così avvio ad un lento, ma profondo processo di acculturazione i cui effetti si protrassero ben oltre la fine della dominazione araba avvenuta nel 1098 a seguito della riconquista cristiana. Questo evento non implicò la cacciata dei vinti, che continuarono a vivere sull’isola divenuta di fatto un condominio tra il re di Sicilia e il sultano di Tunisi, a cui in ugual misura venivano pagati i tributi. Si generò così una coesistenza pacifica tra popolazioni di lingua e religione diverse, essendosi insediati oltre ai Musulmani anche una nutrita colonia di Ebrei (espulsi poi dall’isola, come pure dalla Sicilia e dalla Spagna, in seguito al bando del 1492), e tra gli stessi cristiani si riscontrò per lungo tempo la presenza di monaci basiliani, giunti a Pantelleria all’epoca della dominazione bizantina.
Malgrado si fosse instaurata una situazione di promiscuità, la cultura dominante restò quella araba. La lingua si era diffusa a tal punto da connotare non soltanto la parlata locale, il pantesco, ma di marcare il territorio in modo univoco. Sebbene in tutta la Sicilia possiamo riscontrare termini geografici di origine araba, com’evidenziano gli studi condotti sia da geografi (Giuffrida, 1957), che da filologi e linguisti (Pellegrini, 1961 e 1989; Caracausi, 1983), alcuni di questi si localizzano quasi esclusivamente in questa ben delimitata area, rimarcando soprattutto le peculiarità fisiche dell’isola, costituita da un unico grande cratere ormai spento.
Tra questi il più rilevante è il termine “cúddia” (“kúdja = collina) con cui s’indica un avanzo di antico cono vulcanico; queste tipiche formazioni orogenetiche si riscontrano su tutto il territorio, caratterizzando le forme del paesaggio per la loro varietà e numero (oltre venti); alcune di esse appaiono ormai ricoperte dalla vegetazione mentre altre, come la Cúddia Bruciata, sono nere e brulle; dimensioni e altezza sono estremamente variabili: appena 36 s.l.m. le Cúddie Rosse nella zona nord-occidentali contro i 591 della Cúddia Mida che, dopo la Montagna Grande (830 m) e Monte gitele (790 m), è la maggior elevazione dell’isola. In particolare, nei pressi delle Cúddie Rosse nella zona nord-occidentale sorgono i caratteristici “Sesi”, imponenti monumenti sepolcrali megalitici risalenti aletà del bronzo: hanno forma circolare (il diametro varia dai 4 ai 6 metri) e sono sormontati da cupole, raggiungendo un’altezza complessiva massima di circa 6 m; ciascun “Sese” contiene diverse cellette sepolcrali (da 3 a 12) a cui si accede dall’esterno.
Tra i termini relativi all’idrografia terrestre e alla sua azione geologica il Giuffrida (1957, p. 66) riporta “buvira” (bu’ayara = fonte, pozzo) con il quale s’individuano alcune pozze d’acqua salmastra e viscida, ma potabile, utilizzate soprattutto per abbeverare il bestiame, che presentano pareti e fondo ricoperti da incrostazioni biancastre dovute alla silice; in passato se ne riscontravano una decina nella zone nord-occidentale, in una stretta striscia di terra, detta Kartibugal, compresa fra il lago vulcanico, noto sia come Bagno dell’acqua che Specchio di Venere, e il tratto costiero delle Balate; in seguito ai sollevamenti subiti dalla costa nel 1890 e 1891 l’acqua scomparve e poi riapparve lentamente, ma allo stato attuale non sono più rintracciabili. Ne esistono altre in prossimità delle coste di Gadir, della Contrada Arenella e nella zona di Mursia; sono quasi del tutto scomparse quelle all’interno del centro abitato di Pantelleria. Una di queste, però, il cui orifizio è stato murato, si trova all’interno del castello; secondo il D’Aietti, studioso di storia locale, la presenza della buvira avrebbe motivato la scelta del sito in cui erigere il maniero.
Legato alla natura vulcanica dell’isola è il termine “favara” (“fawwara” = sorgente d’acqua), presente nel resto della Sicilia come toponimo, che assume a Pantelleria il significato di “fumalora” e con cui s’indicano le numerose sorgenti termali presenti sull’isola da cui si sprigiona ad intermittenza vapore acqueo ad elevata temperatura. Sono localizzate in due zone limitrofe alla Montagna Grande, una a sud denominata Costa delle Favare e l’altra a sud-ovest lungo il fianco sud-orientale della Fossa del Russo. Sino agli inizi degli anni Ottanta queste emissioni di vapore venivano sfruttate ponendo al di sopra di esse una copertura di frasche, grazie alla quale si riusciva a far condensare il vapore, ottenendo modesti quantitativi di acqua utilizzati per abbeverare il bestiame.
Sull’isola sono in uso alcuni termini relativi alla qualità e all’uso del suolo, come ad esempio “marga” e “garca” (“galqah” = giardino recintato), usati entrambi per indicare un terreno coltivato e recintato da muretti a secco, con la differenza che il primo individua un piccolo appezzamento rettangolare coltivato a vite e il secondo un fondo di forma quadrangolare e di dimensioni maggiori; “ghimeni” (derivato da gamma = lasciato a riposo) invece è sinonimo di terreno produttivo, mentre “tànca” (tawq = costa di montagna) individua un terreno collinare pietroso (Pellegrini, 1961).
Non si può poi tralasciare, vista “…la buona potenzialità interpretativa del sistema culturale” (Caldo, 1983, p. 315) offerta dagli studi di toponomastica, di fare qualche riflessione in merito ai nomi delle località pantesche, in maggioranza di etimo arabo, sopravvissuti in forme quasi inalterate fino ad oggi. A tal proposito corre l’obbligo di segnalare gli studi condotti dal De Fiore (1930), dal Pellegrini (1961) nonché dallo studioso locale D’Aietti (1978) che consentono di effettuare un’attenta analisi dei toponimi dell’isola, che rappresentano un codice culturale, una chiave di lettura del territorio che permette di sottolineare il peso che percezione dell’ambiente geografico ha avuto nelle fasi del processo di acculturazione dell’isola. Non a caso la maggioranza degli elementi fisici che caratterizzano morfologicamente Pantelleria è identificata con termini geografici coniati dagli Arabi come le già citate “cúddie”, oppure le cale (dal termine “kalla” = lastra di pietra, indica un’insenatura che consente l’approdo a piccole imbarcazioni) che si aprono lungo le coste frastagliate che a tratti si appiattiscono in corrispondenza delle balate (da “balat” = lastra di pietra, assume il significato di tratto di costa rocciosa compatta e tabulare); rilevante è la presenza di voci arabe attinenti alla geonomastica ed usate in funzione di toponimo. Tra queste la più ricorrente è “gèbel” (“gabal” = montagna), che ritroviamo ovviamente riferito alle alture dell’isola: il monte Gibèle (700 m), le due colline gemelle che hanno lo stesso nome Gibilé, il monte Gelfisèr (da “gèbel” e “fizar” = fessure), che deve il suo toponimo alle violente esplosioni vulcaniche che lo hanno frantumato, e infine Gelkamàr (da “gèbel” e “ahmar” = rosso).
Ma sono i nomi delle contrade, delle località, dei centri e dei nuclei abitati ad offrire uno spunto di riflessione: la maggior parte di essi ha mantenuto l’etimo arabo, legato sovente alle caratteristiche del territorio, come ad esempio Khamma (da “hamma” = sorgente calda), il cui toponimo contiene un chiaro riferimento alla sorgente calda di Gadìr, che ricade nell’omonima località. Sono pochi i casi in cui il nome arabo è scomparso, sostituito da una nuova denominazione: è quanto avvenuto per la contrada Grazia, il cui nome arabo era Nauccibbìb, in cui sorge la chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie. Un altro esempio è quello della contrads Triqnakhalè, che già agli inizi del Settecento era nota come Santa Croce e, successivamente, come Piano Barone. Ciò non inficia il ruolo egemone assunto dalla cultura islamica, rimarcando quanto deboli siano stati gli effetti del processo di acculturazione da parte delle popolazioni cristiane subentrate a quelle musulmane.
Un ulteriore considerazione è suggerita dai toponimi di alcune contrade che contengono il termine “beni” (plurale di “ibn” = figlio) seguito dal nome di una tribù. Le contrade in questione sono: Benicuvèdu, tribù dei Cuvèdi (da Huwedi nome di una tribù berbera); Benidsé, tribù dei Diss, proveniente da Djerba; Benikulà, letteralmente figli di Kulà, da intendersi come casato; Beninmingallo, tribù dei Mingalat; Beniminnàrdo, d’origine incerta, forse romanza (D’Aietti, 1978). Alla conquista araba segue un periodo di riorganizzazione territoriale il cui effetto più vistoso è la frammentazione dei fondi (conseguenza diretta del sistema di ripartizione del bottino che non prevedeva l’attribuzione legale dei terreni, sui peraltro gravava una tassa fondiaria, con ciò dando notevole impulso alla messa a coltura delle terre), la cui messa a coltura avvenne anche grazie all’apporto di coloni provenienti probabilmente dalla vicina Africa, Berberi e Tunisini, che contraddistinsero il territorio su cui s’insediarono con il nome della loro gens.
L’impulso dato dalla civiltà arabo-islamica all’isola è ancor oggi evidente. S’individua nella presenza dei numerosi insediamenti che conservano l’originario toponimo arabo, sparsi in tutta l’isola, testimonianza di un periodo di prosperità economica in cui un ruolo preponderante ha la politica agraria capace di stimolare l’iniziativa privata. S’identifica nell’introduzione di nuove colture: gli agrumi, la canapa, probabilmente lo zibibbo, ma soprattutto il cotone (veniva lavorato in loco, soprattutto ad opera di artigiani ebrei, soddisfacendo il bisogno dei panteschi; oppure veniva esportato anche grezzo: probabilmente uno dei punti d’imbarco dovette essere Cala del cotone, poco più a sud di punta Spadillo), la cui produzione resta per molti secoli la voce più importante del quadro culturale pantesco, fin quando, nel XIX secolo, non sarà soppiantata da quella della vite. Questo impulso si concretizza anche nella costruzione di un paesaggio, al contempo rurale e culturale, che nasce dalla necessità di coniugare la sete pantesca con la fertilità dei suoli vulcanici, la preziosità degli agrumi con la forza distruttiva dei venti.
La fitta trama dei muretti a secco, che da un lato contengono i terrazzamenti e dall’altro assolvono all’importante funzione dello spietramento del terreno, e i “dammusi”, le caratteristiche unità abitative di chiara matrice araba, s’incastonano in un substrato fisico già di per sé estremamente peculiare, assumendo il ruolo di simboli dell’identità culturale (Caldo, 1994).
Quella pantesca è una popolazione legata alla terra piuttosto che al mare, espressione di una società contadina proiettata verso la vita e le tradizione rurali, che ha pazientemente conquistato all’agricoltura un territorio ostile il cui unico pregio è rappresentato dalla fertilità del suolo; che ha saputo adattare le coltivazioni ai condizionamenti di un sì mite, ma caratterizzato da scarse precipitazioni e dai forti venti. Così gli olivi crescono radenti al suolo, sviluppandosi maggiormente in larghezza piuttosto che in altezza, e le viti, mantenute basse, appaiono quasi rannicchiate entro le conche scavate nella terra che da un lato le proteggono dai venti e dall’altro convogliano verso la pianta ogni goccia d’acqua che un cielo avaro dona a quest’isola arsa dalla sete.
L’intreccio dei terrazzamenti con i muretti che delimitano ogni singolo appezzamento crea un complesso reticolo che sottolinea la polverizzazione della proprietà fondiaria; quasi tutti i panteschi possiedono un pezzo di vigneto, dato che questa è, ormai da due secoli, la coltivazione predominante e su ognuno sorge un “dammuso” (dall’arabo “dammus” = edificio a volta; di queste costruzioni se ne contano 5.000 sparse in tutta l’isola), la tipica, essenziale costruzione pantesca che assolve ad ogni esigenza del contadino: abitazione estiva, deposito per gli attrezzi, ricovero diurno.
Il binomio “vigneto-dammuso” assume il ruolo di elemento caratterizzante del paesaggio pantesco nel corso del XIX secolo. La viticoltura era praticata fin dai tempi remoti, si deve però agli Arabi il perfezionamento dei metodi di produzione e forse anche l’introduzione dello zibibbo (zabib = uva secca). La coltivazione di questa particolare varietà, da cui si ricavano vini rinomati come il liquoroso moscato passito e il bianco secco vino zibibbo, ricevette notevole impulso dalla concomitanza di alcuni fattori verificatisi intorno alla metà dell’Ottocento: la Francia nel 1830 occupò l’Algeria e con le sue navi da guerra eliminò le ultime tracce di pirateria rendendo più sicuri i traffici commerciali e gli abitanti dell’isola. L’abolizione nel 1845 dei diritti promiscui tra il Principe d’Aragona e il Comune di Pantelleria produsse un profondo cambiamento dell’ordinamento colturale (secondo i rilevamenti del Catasto borbonico (1883) il vigneto occupava una superficie di 904 ha; alla data dell’impianto del N.C.T. (1929) risultava coltivata a vite una superficie di 5.138 ha) con un conseguente aumento della superficie agraria utilizzata. La distruzione della maggior parte dei vigneti europei dovuta alla fillossera generò una forte domanda nel settore vitivinicolo, contribuendo alla conquista di nuovi e redditizi mercati per lo zibibbo, vinificato o essiccato, che toccò verso la fine del primo conflitto mondiale prezzi così elevati che il costo del terreno veniva ammortizzato nel giro di soli tre anni. Nel 1929 s’iniziò l’esportazione dell’uva da tavola, però l’anno seguente comparve anche a Pantelleria la fillossera, importata con una partita di terra frammista a concime. Nell’arco di pochi anni questo flagello distrusse i vigneti indigeni successivamente ricostruiti innestando la vite locale su degli ibridi. Tuttavia i vigneti non hanno la longevità di quelli del passato che vivevano circa un secolo, raggiungendo gli ibridi a stento i cinquant’anni.
All’espansione della coltivazione intensiva della vite si associa la diffusione del dammuso, frutto di un’originale quanto povera architettura rurale e al contempo insostituibile testimonianza della cultura materiale locale.
Si tratta di una costruzione terrana di forma cubica, il cui lato misura circa quattro metri, sormontata da un tetto a cupola di evidente influsso arabo. Realizzato utilizzando le rocce laviche cavate sul posto e grossolanamente sbozzate, il dammuso presenta pareti assai spesse, da 80 cm a circa 2 m, costituite da due file di pietre parallele e separate da un’intercapedine riempita di pietrame e terra (muri molto spessi e blocchi lavici irregolari sono caratteristici delle costruzioni più antiche; se ne riscontrano alcune con tetto a botte coperto con un manto di taiu, la caratteristica malta fatta di terra impastata con acqua). Muri siffatti, necessari per assorbire le spinte della volta, rendono estremamente stabile l’edificio, che peraltro è privo di fondamenta, e risultano refrattari al calore, al freddo e ai rumori, mantenendo l’interno fresco d’estate e caldo d’inverno. Quest’ultimo è solitamente imbiancato a calce, vi si accede attraverso una porta ad un battente, e prende luce anche da una finestrella laterale. La cupola è rifinita con un impasto di calce e tufo rosso battuto con mazze di legno per diversi giorni, finché non acquista una compattezza tale da renderla impermeabile; la forma leggermente schiacciata permette la raccolta dell’acqua piovana che, attraverso una canaletta scavata nel muro, viene convogliata nella cisterna, solitamente interrata, che costruisce un elemento essenziale per la vita sull’isola sin dal periodo punico-romano. Accanto al locale principale si trova spesso un cucinino di dimensioni minori e un piccolo ricovero per l’asino, che presentano la stessa tipologia costruttiva.
Il dammuso costituisce il modulo-base dell’architettura rurale pantesca. La dimora permanente sembra quasi realizzata tramite una giustapposizione di questi elementi, visto che ogni singolo vano è sormontato dalla caratteristica cupola. Il che ha generato l’uso di adoperare il termine “dammuso” anche per indicare la casa rurale, accezione nella quale la costruzione consta di tre ambienti fra loro comunicanti: la cucina, la sala e una camera ulteriormente divisa in tre parti: lo spogliatoio, il camerino e l’alcova. Quest’ultima, che accoglie il letto matrimoniale, comunica con la stanza principale tramite un grande arco chiuso da una tenda ricamata, secondo l’uso arabo. L’essenzialità di questo tipo di dimora è sottolineata dal “casène”, nicchie rettangolari di discrete dimensioni ricavate nei muri e utilizzate come armadi; a volte si riscontrava la presenza di casène di dimensioni molto più ridotte in cui si alloggiavano le lampade di terracotta ad olio per l’illuminazione notturna. Ma sono alcuni appendici esterne della casa rurale che le imprimono un carattere di unicità. Accanto al caseggiato spesso sorge una piccola torre rotonda fatta di muri a secco in cui si apre una porticina: è il tipico “giardino” pantesco, il cui interno accoglie un prezioso albero di agrumi: il limone, il cedro o l’arancio venivano coltivati con grande dispendio delle poche risorse del contadino pantesco che costruiva un robusto muro per proteggere l’albero dai venti impetuosi che flagellano l’isola e riutilizzava l’acqua già adoperata per usi domestici per irrigare il giardino. Altro elemento quasi sempre presente è lo “stenditore” (costituito da un muro con un piano inclinato, rivestito con un battuto di lapillo e calce, su cui viene appoggiato un graticcio con l’uva da essiccare; per evitare i danni prodotti dalla rugiada notturna l’uva viene protetta con dei tendoni), un vero e proprio essiccatoio per pomodori e fichi, ma soprattutto per la preparazione dell’uva passa, immancabilmente esposto a sud per usufruire del massimo del calore diretto del sole, nonché di quello riflesso dal muro a cui si addossa. Accanto si trova il fornello, utilizzato per preparare una mistura d’acqua calda, carbonato di soda e soda caustica con cui sbollentare le uve per accelerarne il processo di essiccazione (Bonasera, 1968).
Sebbene la presenza araba abbia inciso fortemente sull’organizzazione territoriale dell’isola, soprattutto grazie all’introduzione di nuove colture e innovative tecniche agricole che trasformarono profondamente il paesaggio, a ben poco valsero le conoscenze e le capacità di questa civiltà in materia di gestione delle risorse idriche: sono davvero ben poche le tracce di efficaci sistemi d’irrigazione, dato che ben poche sono le risorse idriche. Ciò non toglie che, laddove vi fosse la presenza di sorgenti, non si mettessero a frutto le tecniche esperite dagli arabi (Cusimano, 1996). Così all’interno dell’abitato di Pantelleria esistevano alcuni orti irrigati tramite l’acqua attinta dalle buvire per mezzo di senie (norie), le tipiche macchine idrauliche di matrice araba. L’unicità di questi casi è rimarcata dal fatto che il pantesco finì con l’identificare lo strumento utilizzato per captare l’acqua con la presenza stessa di quest’ultima e così con il termine “senia” ancor oggi s’intende un orto dotato di pozzo.
La realtà territoriale di Pantelleria, “intesa come insieme di oggetti materiali, spazialmente ordinati e portatori di significato” (Guardasi, 1989, p. 291), è frutto di un processo dinamico in cui ambiente fisico, cultura e insularità giocano un ruolo rilevante. I condizionamenti derivanti dalla natura vulcanica dell’isola, dalla morfologia delle coste, dall’accavallarsi di antiche colate laviche, dalla mancanza di corsi d’acqua e di sorgenti, istintivamente consapevole delle potenzialità offerte dall’ambiente, razionalmente capace di rielaborare gli apporti culturali provenienti dall’esterno, si trasformano in opportunità: i vigneti conquistano i fianchi dei conetti vulcanici, si spingono fin dentro gli antichi crateri; le scure rocce vulcaniche si trasformano in muri di contenimento, danno vita a moduli architettonici unici che assumono la valenza di simboli d’identità culturale e geografica. Infine l’insularità che agisce da un lato come elemento catalizzatore nel processo di rielaborazione culturale e dall’altro ne ostacola la diffusione verso l’esterno.
Ma paradossalmente negli ultimi anni questa situazione sembra ribaltarsi: l’attrazione esercitata dall’insularità diventa veicolo di una cultura elitaria, propria di elementi estranei al contesto isolano, che, venendo a contatto con la cultura materiale locale, ne acquisisce i simboli. Il dammuso, nella sua veste di segno culturale, assume valori sostanzialmente differenti per il pantesco e per chi viene da fuori. Pur nel pieno rispetto della conservazione dello spazio e del paesaggio, ciò ha comportato l’alienazione di una parte del patrimonio edilizio rurale e la trasformazione di un bene d’uso, la terra, in merce. Se in passato si acquisiva un appezzamento, e con esso l’immancabile ricovero rurale, oggi l’oggetto del desiderio è il dammuso e la terra che vi è intorno è quasi un’inutile appendice. Si è così ulteriormente accelerato il processo deruralizzazione in atto sull’isola.
Tutto ciò non può privare Pantelleria, in cui si vuole individuare la mitica Ogigia, regno di Calipso, di quel vasto patrimonio culturale che rappresenta un bene economico da utilizzare adeguatamente.

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